LA SOCIETA’ E’ RESPONSABILE PER LA SICUREZZA SUL LAVORO IN QUOTA

LA SOCIETA’ E’ RESPONSABILE PER LA SICUREZZA SUL LAVORO IN QUOTA

LA SOCIETA’ E’ RESPONSABILE PER LA SICUREZZA SUL LAVORO IN QUOTA 1280 960 CC Legal

Responsabilità della Società ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001 e dell’art. 590 del codice penale per la sicurezza sul luogo di lavoro: in un caso di “lavoro in quota” la Cassazione si sofferma sulla corretta interpretazione del D.Lgs. n. 81/2018, artt. 111 lett. a) e 115 (Cassazione Penale, sez. IV, (ud. 24/01/2019) 17/04/2019 n. 16598).

 

  • La massima.

La Cassazione ha confermato il giudizio di responsabilità pronunziato dai giudici territoriali per il reato di cui all’art. 590 c.p. commi 2 e 3, nei confronti del legale rappresentante di una società per aver cagionato con imprudenza, negligenza ed imperizia ed in violazione delle norme di prevenzione e sicurezza sul luogo di lavoro – in quota – di cui al D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 111, lett. a) e art. 115, lesioni personali gravi ad un suo dipendente. Secondo la Cassazione, la sottovalutazione sistematica dei rischi va considerata un chiaro sintomo di scelte imprenditoriali volte ad ottenere risparmi sui costi a dispetto degli obblighi di sicurezza gravanti sull’imprenditore a tutela della salute dei lavoratori.

 

  • Il caso di specie: lavoro in quota.

Nel caso in esame, il dipendente di una società di lavorazioni industriali, mentre operava in alta quota, in assenza di dispositivi protezione individuali collettivi, dopo essersi sganciato dalla linea vita, scivolava sulla tavola in legno predisposta per il camminamento e sfondando una lastra in fibrocemento, precipitava da un’altezza di circa cinque metri.

La sentenza, ha affermato la colpevolezza del legale rappresentante della società, nella sua veste datore di lavoro e redattore del piano operativo per la sicurezza, direttore tecnico e capo cantiere.

La Cassazione ha osservato che nel piano di lavoro era stata prevista la necessità di predisporre, a tutela degli operai che lavoravano sul tetto del capannone, la rete di protezione, non effettivamente posizionata. Nello stesso piano di lavoro, non solo era stata indicata la presenza di una soletta portante, mentre quella ove si operava non lo era, ma erano altresì previsti camminamenti con tavole da ponte, sebbene, al momento dell’infortunio, fosse presente sulla copertura un’unica asse in legno di modeste dimensioni, collocata a ridosso del lato inferiore del tetto, vicino al punto di caduta del lavoratore infortunato, ma lontana dalla scala che serviva per accedere alla copertura.

Inoltre, la cintura da agganciare alla linea vita, consegnata all’operaio, non era dotata del doppio cordino necessario a consentire il passaggio da un anello all’altro della linea vita, che doveva assicurare il collegamento costante con il presidio ed era pertanto inidonea a fornire valido strumento di protezione individuale.

 

La sentenza ha confermato la responsabilità del legale rappresentante della società interessata dai lavori di cui sopra, in ordine all’illecito amministrativo di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25 septies per avere reso possibile, la commissione del delitto nell’interesse della stessa società, per la mancata adozione di un modello organizzativo relativo alle modalità di esecuzione di operazioni sulle coperture di capannoni industriali, il che comportava una diminuzione dei tempi di intervento ed evitava investimenti relativi alla predisposizione di idonee attrezzature di sicurezza.

La Cassazione, ha più volte precisato il contenuto del richiamo normativo ai concetti di interesse e vantaggio, chiarendo che si tratta di concetti “giuridicamente diversi, che possono essere alternativamente presenti, sì da giustificare comunque la responsabilità dell’ente, come reso palese dall’uso della congiunzione “o” da parte del legislatore nel D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5, e come è desumibile, da un punto di vista sistematico, dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 12, comma 1, lett. a), laddove si prevede una riduzione della sanzione pecuniaria nel caso in cui l’autore ha commesso il reato “nell’interesse proprio o di terzi” e “l’ente non ne ha ricavato un vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo”, il che implica astrattamente che il reato può essere commesso nell’interesse dell’ente, senza procurargli in concreto alcun vantaggio (sez. 4, n. 2544 del 17/12/2015, dep. 21/1/2016, Gastoldi ed altri).

Il concetto di interesse attiene ad una valutazione ex ante rispetto alla commissione del reato presupposto, mentre il concetto di vantaggio implica l’effettivo conseguimento dello stesso a seguito della consumazione del reato, e, dunque, si basa su una valutazione ex post.

A quanto premesso ed efficacemente argomentato dalla Corte territoriale, la Cassazione ha poi aggiunto che il risparmio richiamato dalla norma si consegue anche riducendo i tempi di lavorazione e non solo gli investimenti per l’acquisto di strumenti cautelativi o per lo svolgimento di corsi di formazione dei dipendenti.

Pertanto, anche laddove i presidi collettivi ed individuali siano presenti e conformi alla normativa che ne regola le caratteristiche e i lavoratori siano stati correttamente formati, ma poi le lavorazioni in concreto si svolgano senza prevedere l’applicazione ed il controllo dell’utilizzo degli strumenti in dotazione, al fine di conseguire il risultato di una riduzione dei tempi, si realizza quell’intento di far perseguire alla persona giuridica un’utilità, descritto dalla norma incriminatrice, come interesse.

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Nell’ambito del D.Lgs. n. 231/2001 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche), CC Legal ha maturato una vasta esperienza nella predisposizione e nell’adeguamento dei modelli organizzativi e dei codici etici delle Società , nonché nell’attività di assistenza, supporto e partecipazione agli Organismi di Vigilanza.

Avv. Marco Porcu